Uomini, un dialogo con i sex offender della Casa Circondariale di Sanremo

Nell’ottobre del 2013 ho avuto l’opportunità di accedere alla sezione protetta della Casa Circondariale di Sanremo.
Qui, per la prima volta è stato concesso un dialogo con i quaranta sex offender che la abitano.

Il reportage, realizzato per Shoot4Change, è stato poi pubblicato da Repubblica.it.
Le foto sono di Alessandro Barteletti.

Qui di seguito il testo integrale.

L’INGRESSO

Il cancello in ferro battuto è così alto e ostile che farebbe vacillare perfino il più temerario dei bambini. Le sue sbarre abbracciano due edifici come in un girotondo: dentro a uno di essi, c’è un piccolo carcere nel carcere, la Sezione protetta della Casa Circondariale di Sanremo che ospita circa 40 sex offender ovvero, per definizione, autori di reati sessuali di qualsiasi genere. Si tratta per lo più di persone solitamente in possesso di una certa cultura e di un buon livello di scolarizzazione che hanno sempre condotto una vita normale. Casa, famiglia, lavoro. In parallelo, hanno commesso crimini, spesso soltanto uno ma grave. Non siamo di fronte al delinquente comune, che passa la vita dentro e fuori il carcere. Per questo, l’approccio alla detenzione è diverso così come è diversa l’accettazione di sé in quanto essere colpevole.

Il cielo e l’aria che arriva dal mare sono di un ottobre che non vuole lasciare spazio all’autunno. Porgiamo i documenti a un Agente di Polizia Penitenziaria, che fa una telefonata: ci stanno aspettando. Io ho un taccuino in mano, Alessandro una reflex: siamo qui per raccontare delle storie, con le parole e le immagini.

Oltrepassiamo una prima porta e porgiamo i documenti, di nuovo. Un secondo Agente prende nota dei nostri dati. Lasciamo i nostri oggetti personali dentro a un armadietto e ci viene consegnato un cartellino da tenere in vista con la scritta Visitatore. Smetto di contare le porte che si apriranno per poi richiudersi alle nostre spalle, sembra quasi di superare i livelli di un videogioco.

Sono le 18 e il cielo è bellissimo. L’aria, frizzante.

Alzo lo sguardo e vedo solo finestre con le sbarre. Intravvedo una figura che mi osserva, curiosa: siamo la novità.

Ci hanno detto che prima è meglio avere un’idea degli ambienti, degli spazi, respirarne l’aria quando sono vuoti perché le attività a quell’ora sono finite.

Ci hanno detto che è meglio, prima. Prima dell’incontro e del dialogo.

L’Agente che ci accompagna ha un mazzo di chiavi dorate e grandissime che fa tintinnare fra le mani proprio come si vede nei film, e con sicurezza ne sceglie una che apre una porta con le sbarre.

Oltre, troviamo altri Agenti.

Chiave dorata che apre una porta con le sbarre, chiave dorata che la chiude: questi gesti diventeranno presto consuetudine. Alienazione, forse.

I nostri passi rompono il silenzio attraverso un lungo corridoio, a destra e a sinistra porte in ferro, chiuse a chiave.

Un orologio al muro segna le 18.09.

TOC. Sono le 18.10, ora.

Lo senti proprio, il TOC. Forte e deciso.

Troviamo pezzi della vita là fuori, che sono stati portati qui dentro. Basta poco, per sentirsi parte di un altro mondo, così lontano eppure così vicino, all’improvviso. Ti entra dentro come una telefonata alle quattro di mattina, il cuore che batte forte per lo spavento, quel mondo. Basta poco, per dimenticare quello che hai lasciato oltre tutte quelle porte, quelle sbarre.

Una palestra con alcuni pesi abbandonati a terra, una sala hobby dove viene lavorato il legno – gli oggetti realizzati dai detenuti vengono regalati ai parenti, è un modo per lasciare tracce di loro all’esterno, per dire io esisto. Uomini.

Una biblioteca, con libri divisi per genere letterario. Sulla destra, nel secondo scaffale, ce ne è uno dalla copertina rossa che subito attira la mia attenzione: è il numero 111, che se ne sta sbadato fra il 112 e il 113. S’intitola Diario di un uomo felice.

E poi la Chiesa, e il teatro.

Uomini.

Le stanze dei colloqui: enzo+sandra, racconta una piccola scritta incisa su un muro. L’amore, nonostante tutto.

Poi ci sono tre stanze riservate ai detenuti che ricevono la visita delle mogli e dei figli piccoli. Ogni stanza ha una parete decorata: Bambi, Topolino. Biancaneve, con quattro nani, non sette. Un tavolino con tre sedie. La famiglia, nonostante tutto.

Ci avviamo verso l’uscita, perché è arrivato il momento di andare: il giorno seguente incontreremo gli ospiti della casa circondariale. A un certo punto sulla sinistra il muro si interrompe, vedo una porta con le sbarre, e un’altra ancora. Poi una cella, chiusa: dentro, due occhi mi fissano.

Uomini.

 

L’INCONTRO

Come glielo racconti quel sole che splende e quell’aria che punge, a chi sta oltre tutte quelle porte chiuse, non lo so. Questo mi chiedo, mentre entriamo di nuovo in quegli spazi. Oggi incontreremo i detenuti assieme a Padre Federigo, la loro guida spirituale. Ormai sappiamo come funziona. Consegna dei documenti, armadietto nel quale lasciare gli oggetti personali, il cartellino da appendere al collo con la scritta Visitatore.

Padre Federigo vuole sapere le mie impressioni, se mi sento a disagio, perché è  capitato che dopo una prima visita alcuni visitatori/volontari non si siano più presentati perché l’impatto era troppo forte. Rispondo che no, non avverto disagio.

Mi sussurra non lasciarti ingannare dai loro sorrisi. Sono uomini molto dignitosi, ma portano dentro una sofferenza immensa.

D’ora un poi ci saremo solo noi, accompagnati dagli Agenti, e i detenuti, con i quali possiamo parlare liberamente. Alessandro può scattare foto, perché abbiamo l’autorizzazione. Sentiremo diverse volte gli Agenti rassicurare il collega di turno un po’ perplesso. Hanno l’autorizzazione. Sì. Sì che possono. Anche qui? C’è l’autorizzazione.

In cucina troviamo Gianni, il detenuto cuoco: è da otto anni che prepara i pasti ed è molto fiero del suo lavoro. Si asciuga le mani col grembiule e mi stringe la mano. Sorride, Gianni. Mi mostra orgoglioso quello che ha preparato: piselli, sugo, arancini di riso. Gli arancini di riso hanno tutti la stessa, perfetta, forma sferica e la stessa dimensione e sono stati disposti su una lunga teglia, con cura.

Uomini.

In teatro c’è Karim, che sta spazzando il pavimento: è vestito di nero e di colpo smette di lavorare. Rimane immobile, in piedi, con la scopa in mano. Non muove nemmeno la testa. Solo gli occhi, ogni tanto.

Alessandro deve scattare alcune foto all’esterno e così si mette davanti alla finestra ad aspettare il momento giusto. Mi dice scusami mi ci vorranno alcuni minuti. La sua reflex si fa largo fra le sbarre, per immortalare alcuni detenuti che giocano a calcio, fuori. Raccoglie qualche risata, un briciolo di normalità. Io aspetto Alessandro, e Karim aspetta noi. Ha smesso di lavorare, rimane fermo immobile, quasi in attesa di un ordine che non arriverà. I click ripetuti scandiscono quei silenzi, quell’attesa.

Usciamo nella zona del passeggio. Ci sono due cortili, uno più grande e uno più piccolo. Entrambi controllati da una postazione di Agenti nella quale ci permettono di entrare: un vetro ci divide da loro. Alcuni detenuti fanno flessioni, alcuni passeggiano a gruppi di due o tre. Chiacchierano, chissà cosa si dicono. Non possiamo sentirli. Non appena ci vedono si bloccano, si avvicinano perché hanno capito di essere al centro dell’attenzione. Si mettono in posa, vogliono una foto. Gli Agenti dicono loro camminate, camminate, fate finta di niente.

C’è un uomo, che rimane in un angolo, seduto per terra. Da solo e in silenzio, con lo sguardo fisso davanti a sé. Il sole scalda, ma lui rimane all’ombra.

Uomini.

Visitiamo la zona colloqui, perché proprio ora i detenuti ricevono la visita dei parenti. Rimangono abbracciati tutto il tempo, guardandosi negli occhi, a parlare. Sono un uomo e sua moglie. L’orologio della stanza è rotto, fermo alle 15.40. Si abbracciano, si guardano e parlano e pare il tempo si sia fermato solo per rendere quell’attimo eterno. Riguardo quella piccola scritta incisa sul muro, enzo+sandra. Vorrei fossero sempre le 15.40, per loro due.

Uomini.

È ora di entrare nella sezione protetta della Casa Circondariale.

Dede è il primo ad accoglierci, sorridente. Entriamo nella cella che divide con altri due compagni: ci sono delle musicassette appoggiate su una mensola, che fanno molto anni ‘90. Tempo. Fermo.

Appeso al muro, accanto a un cuscino, un biglietto. Ti voglio bene. Un piccolo poster di Rihanna, un’immagine della Madonna. La cartolina del Porto Antico di Genova. Alcuni libri fra i quali uno di matematica e la Bibbia. Nella minuscola cucina, se così si può chiamare, ci sono piccole mensole che hanno costruito incollando fra loro pacchetti di sigarette. Ne vanno molto fieri.

Dignità che soffoca sofferenza.

Uomini.

 

IL DIALOGO

Sono in una stanza, assieme ad almeno venti sex offender. Non so se si può chiamare agio, il mio, ma so che sono lì per ascoltare delle storie, per capire quale significato hanno per loro parole come paura, ricordo, libertà. Passato, presente. Futuro e speranza.

Aspettano, in silenzio, che sia io a parlare. Ci guardiamo e per un attimo ci studiamo: io devo fidarmi di loro, e loro devono fidarsi di me.

Per Paolo il ricordo è libertà, tutto ciò che era e che ora non è più. Le gite fatte in sella alla sua moto, soprattutto. Ci sarà un momento in cui si metterà a sedere sistemando lo schienale della sedia fra le gambe. Le braccia alzate, le mani che fanno finta di dare il gas.

Il ricordo è un amore. La famiglia. Il bene fatto, e ricevuto. Gli errori commessi.

La paura sta dentro ognuno di loro, la vedi in quegli occhi quando mi dicono che non vogliono essere dimenticati. Soprattutto, non vogliono che le persone che amano dimentichino come erano prima. Prima di.

Paura di non poter gestire questa loro nuova condizione. Gianluca mi dice di essere riuscito a leggere il fascicolo con le informazioni sul suo arresto solo un mese dopo l’ingresso in carcere. Parla in modo pacato, guarda le mie All Star rosse e mi dice quanti ricordi. Il suo sguardo si ferma poi su un vecchio orologio Scuba di Alessandro e gli confessa quello è il mio esame di maturità. Tempo. Fermo.

Uomini.

C’è quel libro, che se ne sta nel secondo scaffale della biblioteca, sulla destra. Numero 111. S’intitola Diario di un uomo felice.

Alessandro farà loro dei ritratti. Andiamo nella palestra, dove c’è una buona luce.

Se ne stanno pazienti ad aspettare il loro turno fuori, in fila, mentre un Agente rimane nei paraggi.

Mi siedo su una panca, per poterli osservare da vicino.

Fanno molta fatica a sorridere davanti a un obiettivo, ma hanno tanta voglia di avere un loro scatto. Si tratta di una vera eccezione: potranno fare avere la foto a chi vogliono, fuori, e tenerla come ricordo, dentro.

Uomini.

Un uomo manda un bacio all’obiettivo. Per la mia nipotina. Un altro si mette in posa con le mani in tasca. Per i miei genitori.

Io vorrei mandare un messaggio alla mia fidanzata ma non ho un foglio, né una penna, mi dice un ragazzo.

Ci penso io, scrivo sul mio taccuino poi tu lo tieni in mano. Cosa devo mettere?

Ti amo Valentina

Sorride, col taccuino in mano, preoccupandosi di non coprire la scritta con le dita.

Ne arriva un altro, mi dicono che piange spesso per la sua Claudia: si avvicina, chiedendomi se per piacere posso scrivere su uno dei miei fogli ti amo Claudia in grande.

Si mette in posa, a stento trattiene le lacrime, ogni tanto tira su col naso. Gli dicono dai non piangere. Ci sto provando, risponde lui.

Arrivano tutti, uno dopo l’altro, per lasciare una traccia.

Uomini.

Il nostro tempo lì è finito, stringo la mano a ognuno di loro e li vedo avviarsi verso le loro celle, accompagnati da un Agente.

Una, due, tre, quattro, cinque, sei porte si richiudono alle nostre spalle.

Usciamo, e troviamo ancora il sole e l’aria frizzante.

Per provare a capire un briciolo di realtà carceraria basta osservare con i propri occhi le lenzuola azzurre di un letto, o un uomo seduto in cortile, da solo, che si abbraccia le ginocchia, gli Agenti di Polizia Penitenziaria, con la divisa blu e il mazzo di chiavi in mano, che decidono se e quando fare di te una persona libera oppure no.

E poi gli uomini, con i loro sogni che annaspano fra le paure, il dolore nascosto dietro ai sorrisi. C’è una forma di libertà che hanno conquistato con fatica e dolore lavorando su loro stessi, una libertà mentale che nessuno mai potrà togliergli e che li porta lontano ogni volta che lo desiderano: è una libertà che percepisci e respiri.

Uomini.

C’è quel libro, che se ne sta nel secondo scaffale della biblioteca, sulla destra. Numero 111. S’intitola Diario di un uomo felice.

Come glielo racconti quel sole che splende e quell’aria che punge, a chi sta oltre tutte quelle porte chiuse, mi ero chiesta entrando. Alla fine, lo hanno raccontato loro a me.

 

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