Il racconto “Collant rosa” è tra i finalisti del Premio Letterario Laventicinquesimaora – Belleville
Date : gennaio 15, 2018 By
Io avevo la bicicletta e mi piaceva andare veloce, Cesare invece si spostava solo a piedi, mia madre non me la fa usare, diceva.
La scena era la stessa ogni giorno, alle tredici e dieci precise noi due sul marciapiede, io che conduco a mano la bici e lui accanto a me.
Un pomeriggio eravamo in piedi davanti alla finestra della sua camera da letto al sesto piano, lì tante volte ci perdevamo a cercare la fine del cielo, con i gomiti appoggiati sul davanzale.
“Io amo Matteo”. Le parole gli uscirono veloci, una attaccata all’altra.
“Mi pare una bella cosa”.
“Sei sicura, Teresa?”
“Io dico di sì”.
“Non lo dire a nessuno, però”.
Matteo si fidanzò con Patrizia, una biondina di terza F. Cesare si fece così triste che non gli importava nemmeno di aver sentito ancora una volta quella parola all’uscita di scuola, la solita, sempre. Era per lui, ripetuta dieci, cento volte fino a quando non eravamo troppo lontani, oltre l’incrocio della farmacia, per sentirla ancora. Si attenuava un poco quando mi arrabbiavo per davvero e mi voltavo piena di rabbia per dire zitti, teste di cazzo.
“Vieni, su”, mi prendeva la mano e andavamo via. Me la stringeva fino a farmela diventare rossa, come a dire meno male che ci sei tu. Non me lo ha mai detto per davvero, ma io lo avevo capito.
A volte il professore di musica ci chiamava alla cattedra a suonare il flauto davanti alla classe intera, così imparate a esibirvi in pubblico.
“Rossitti”, diceva.
Cesare si alzava e andava a testa bassa verso la cattedra, con l’espressione di chi sa di aver già perso.
La parola arrivava ancora, serpeggiava impietosa fra i banchi, usciva dalle bocche maschili, le stesse che poi dicevano la Teresa è stronza ma bona.
Nasceva per prima dalla bocca di Gianca, dava il via a quello che diventava un virus incontrollabile, un coro sussurrato che sentivano anche i professori.
Un Silenzio stanco e disinteressato rompeva la litania, mentre la penna controllava i voti sul registro, l’attenzione alla lezione del giorno o alla spesa ancora da fare.
“Perché vai sempre a casa con quello? Non lo vedi com’è?”, mi aveva detto Gianca. Lo sapevo di piacergli, lo capivo da come mi guardava quando mi ripassavo il rossetto nero in classe.
Gli avevo preso il libro di grammatica, avevo aperto una pagina a caso e ci avevo sputato dentro il chewing gum.
Cesare disegnava farfalle in fondo alle pagine dei quaderni. Non ho mai visto farfalle più vere e perfette delle sue.
“Farai il disegnatore di farfalle”. Mi guardava e rideva. Cesare rideva per davvero solo con me.
Anche se ero quella strana, vestita di scuro con gli occhi, le labbra, le unghie dipinti di nero, mi aveva scelta.
Il tredici di giugno abbiamo dato l’esame di terza media. All’uscita di scuola gli ho detto: “Ora ti carico sulla bici”. Non lo avevo mai fatto.
“Ma sei matta? Se ci vede mia madre mi uccide”.
“Non me ne frega niente. Sali”.
Siamo volati via leggeri, oltre quella parola che non lo aveva risparmiato nemmeno dopo gli esami, ma io sono stata più veloce, le gambe mi bruciavano per la fatica ed ero sicura che in fondo l’avesse solo intuita. Eravamo i più belli, oltre il traffico, i semafori verdi, le anziane con i sacchetti della spesa.
L’ho lasciato davanti a casa, ubriaco di gioia, i ricci neri scompigliati per la velocità.
Quel giorno aveva vinto lui. Con i miei collant rosa sotto alla tuta leggera e ai calzini blu.